
Come scrive Nigel Parton, docente dell’Università di Huddersfield (Inghilterra) e fondatore della teoria del lavoro sociale costruzionista (approfondita nel libro Costruire soluzioni sociali pubblicato da Erickson), gli esperti hanno perso il ruolo che avevano in passato, «quando i costumi e le tradizioni godevano di consenso diffuso e gli esperti erano coloro a cui ci si poteva rivolgere per avere consigli o per risolvere le situazioni critiche». Scienza ed esperti erano una sorta di Corte d’appello — sottolinea Parton —, ovvero l’ultimo luogo al quale ci si rivolgeva per dirimere questioni altrimenti irrisolte. Ora non è più così. Il mondo è cambiato. I problemi sono sempre più complessi e articolati. Anche la scienza è stata sottoposta al vaglio del dubbio. «Nell’epoca attuale — riflette Parton — abitiamo un mondo nel quale convivono tante autorità diverse e altrettante forme (non sempre coerenti o dotate di fondamento) di conoscenza». Non c’è un settore che sia stato immune a questo mutamento e l’affermazione sopracitata vale, ovviamente, anche per le professioni sociali. Anche se — in questo ambito — la situazione è un po’ diversa. «In questo campo — spiega il docente e ricercatore inglese — non si è mai assistito al predominio assoluto dei modelli di conoscenza ispirati allo scientismo e al positivismo». È raro, infatti, che un «modello» teorico abbia sempre un’applicazione pratica. Ecco perché Parton propone l’approccio del «costruzionismo sociale» e della postmodernità, «che valorizzano più degli altri le forme più fluide e artistiche di conoscenza», e che possono rivelarsi preziosi per ripensare, appunto, il ruolo delle professioni sociali.
Parton immagina un operatore sociale che tocca concretamente i problemi, si sporca le mani e agisce in un processo che non è determinato dall’inizio, ma che prende forma strada facendo, in relazione all’utente in questione. L’operatore sociale è quasi come un pittore che dipinge la sua tela, o un musicista che compone la sua musica: il suo lavoro si costruisce passo dopo passo, ispirato dal contatto con la realtà che lo circonda in quel momento. Non è — come vorrebbe invece un approccio più razionale — un ingegnere che applica i principi e le regole della scienza ingegneristica per realizzare un progetto.
Questo secondo modello — quello dell’operatore sociale-ingegnere — è però il più diffuso nel campo dei servizi sociali, dove — scrive ancora Parton — «l’intervento del professionista si raffigura nei termini di un esercizio di razionalità tecnica: l’applicazione di una data conoscenza, empiricamente corroborata, alla soluzione di problemi legati a una scelta strumentale». Così, «il lavoro sociale non è altro che l’applicazione all’attività pratica di una conoscenza maturata attraverso la ricerca scientifica».
Secondo Donald Schön, influente pensatore nel campo delle scienze sociali, questo modello «razionale» e «tecnico» non è però in grado di spiegare come gli operatori sociali lavorino sul campo, in un contesto in cui i problemi sono molto più complessi e sfaccettati. Nel mondo reale, infatti, i problemi non assumono alcuna forma predefinita. Si presentano sempre in modo caotico e imprevedibile. Ecco, quindi, che «la conoscenza diventa un processo faticoso, tacito e implicito», che nasce «dal dialogo con le persone direttamente coinvolte». «Così facendo gli operatori possono comprendere l’unicità, l’incertezza e i potenziali conflitti di valori che emergono nella realtà che hanno di fronte, e si creano così una teoria, nuova ogni volta, dell’unicità del caso che hanno davanti». È in questo modo che prassi, concretezza e intuizione si pongono, in ogni attività, al fianco della teoria, in un lavoro che incorpora tratti di arte e di mestiere, oltre che ragionamenti teorici e tecnici.
Tuttavia, l’orientamento che va per la maggiore nelle professioni sociali (almeno in Gran Bretagna) si sta spingendo nella direzione opposta. Per rispondere alle sfide degli ultimi decenni sono stati progettati sistemi sofisticati e analitici di rendicontazione sociale, cercando di rendere sempre più «razionali» e «scientifici» i campi d’intervento, con procedure e sistemi di controllo rigidi e complessi. All’interno di questo sistema lavoreranno operatori sociali — come li descrive la sociologa Celia Davies — rapidi e abili nel risolvere i problemi, ma allo stesso tempo abbastanza distaccati, capaci di misurarsi con ciascun utente-cliente con il giusto contegno professionale, senza farsi coinvolgere nelle sue crisi o nella sua sofferenza. Un modello che rispecchia la figura impersonale del burocrate, ma che perde di vista la vera natura delle professioni sociali: il rapporto utente-operatore.
A tal proposito, sono state effettuate molte ricerche per comprendere ciò che i destinatari dei servizi sociali ritengono sia più utile per loro. «Ciò che è emerso — sottolinea Parton — è che la variabile più importante non è la tecnica utilizzata dall’operatore sociale, ma la qualità e il valore dell’esperienza che fa l’utente». Per dirla con lo slogan coniato da Howe: «Accettami, comprendimi e parla con me». È quindi indispensabile che l’operatore sociale instauri una buona relazione con l’utente, affinché lo possa comprendere creando un dialogo vero e profondo. «Più che le procedure o le tecniche impiegate dagli operatori, è l’opportunità di parlare di se stessi che permette agli utenti di comprendere la situazione e di modificarla». Lo stesso aspetto si riflette sul pensiero degli operatori più esperti, in base a uno studio condotto da Jan Fook. «Le loro azioni erano ancorate a una solida ragion d’essere, che era del tutto personale e contingente, al punto che non sarebbe stato possibile rintracciarla in nessun manuale». «La teoria migliore si generava quindi attraverso la relazione di reciprocità con gli utenti stessi. Gli operatori cercavano di aprirsi all’esperienza degli utenti, per poi coinvolgersi in prima persona in un processo volto ad aiutare questi ultimi a comunicarla». Insomma, un aspetto indispensabile è il «lasciarsi andare alla relazione con gli utenti», metodo lontano anni luce dall’ottica dell’operatore sociale-burocrate prima citata.
A questo punto tornano in mente gli interrogativi iniziali: quali sfide attendono gli operatori sociali del nuovo millennio? Come cambierà il loro lavoro, ma soprattutto il loro ruolo sociale? Secondo Parton non siamo di fronte a un «semplice cambio di stile». Passare da un approccio «positivista» a un modello «costruttivista» significa «passare da un approccio gerarchico a uno collaborativo», nel quale l’operatore-esperto più che «sapere cosa», dovrà «sapere come» agire, in una relazione stretta e di collaborazione con soggetti diversi, tra i quali spicca ovviamente l’utente.
Questo approccio non è distante — secondo Parton — dall’etica del prendersi cura del movimento femminista, che va quindi rivalutato. «L’etica della “care” sollecita ad aprirsi di più all’altro e attribuisce quindi importanza alla comunicazione, all’interpretazione e al dialogo». «La conoscenza è vista alla stregua di un processo sociale e dialogico, nel quale il destinatario dell’assistenza non è un oggetto da conoscere» a priori, ma qualcuno che va ascoltato per essere compreso e con il quale si cerca di comunicare. L’operatore sociale 2.0 non potrà più essere un «oracolo» che emette, come un asettico burocrate, soluzioni ai problemi sulla base di teorie predefinite. Dovrà invece unire — non senza fatica — arte e mestiere per affrontare i problemi sempre più sfaccettati della società contemporanea. Dovrà saper ascoltare e comunicare con l’utente, instaurando una relazione di reciprocità anche emotiva, come suggerisce l’etica del prendersi cura. Dovrà stabilire un contatto forte per comprendere, toccare la sofferenza, trovando, in un processo dialogico e continuo con l’utente e altri soggetti, una strategia d’intervento che possa essere positiva, pur senza la certezza iniziale che lo sarà, lasciando lo spazio necessario per aggiustamenti e correzioni in corso d’opera. Proprio come un pittore che dipinge la sua tela, o un musicista che compone la sua canzone, ispirati dal contesto che li circonda.